La pelle è tornita dalla polvere degli smorzi. Levigata dal sudore spesso e duro che tallona il tempo. Il sonno si è dato alla fuga dai tempi del bianco e nero, sostituito da agonie sonnambule che spettinano la notte. Ma ogni giorno, alla mezza di sempre, si ferma per officiare il rito del nutrimento, ouverture di dialoghi sciatti e rumorosi con sconosciuti perenni. Amici. Nemici. Fratelli di madre senza più utero per il troppo spingere, senza urlare nemmeno un respiro. Troppa fatica. Troppo caldo, anche se fuori l’umido scazzotta contro le ossa ammucchiate dal caso. E allora, bulimico di se stesso, comizia desideri al pizzicagnolo. Sempre gli stessi, declamati con decori silenti. Un alito interrotto solo dal rotolare della erre. Zoppica tra vocali scolorite e virgole da drizzare. Due colpi, forse una stretta con la chiave del nove. E l’umiliazione del menù personale può rendere omaggio solo alla prossima cazzuola che attende. Il pane si gonfia con pezzi di cadavere salato di porco ruzzolato dall’Est. Formaggi d’improbabile latte e sottaceti spenti. L’unica cosa che può accendere l’inverosimile pasto è l’ojo der tonno. Gelatinoso e gonfio di pesce e oleosi inattendibili semi. L’ojo der tonno come ostia laica che restituisce la vita. L’ojo der tonno, acido muriatico per le incrostazioni della felicità. Lo guardo con invidia appena. Sottoproletario che mi sovrasta. L’ojo der tonno condirà, da adesso e per sempre, la mia vita.