Ho atteso che il sole scivolasse sull’asse, guardandolo nascosto, sotto un rovo senza spine, dove i frutti cadevano uno dopo l’altro, ma non in terra, perché non vi era, ma in alto, verso il mio sguardo eclissato. Poi ho preso coraggio, quello che non ho mai avuto, mai cercato, mai desiderato, ma l’ho preso ugualmente, con il cuore che fremeva immobile, da me, da gli altri, ma non da te. In macchina correvo verso il desiderio di te, quello che strappa ogni coscienza, ogni senso di se, quello che ti assale di notte quando pensi che sia tutto finito. Correvo da te, impaziente di scorgere ancora il colore dei tuoi sapori, il flusso impaziente del tuo sudore. Correvo gridando il tuo nome, la bocca chiusa, serrata da mandibole radiose, infette, per le ferite che spalancavano carne dopo ogni curva. Il tuo nome lo scrivevo sul parabrezza verniciato di fresco, con lo sperma conservato in gola, mesi infiniti sfrattati da un digiuno abissale. Ma poi sono morto. Finito. Annientato. Il mio corpo vomitato sull’asfalto, il fuoco ardeva gomme, benzine e anima. Poi sono rinato. Allora ho preso una barca, di quelle piccole, di quelle che puoi vedere il davanti che non finisce e il dietro che ambisce di vestirsi da inizio. Ero li, un marinaio contadino, che coltiva solo un amore, un frutto pieno, zeppo, colmo, solo di te. Arrivo, arrivo da te, graffio il contenuto del fiume, che si oppone con forza, al mio arrivare, al mio sbarcare, al mio conquistare ogni parte di te. Ma poi sono morto. Affogato da un onda gentile, unica e lunghissima, infinita di collera, odi e spugne rigurgitanti del mio avaro respiro. Poi sono rinato. Dentro un corvo più nero del buio, quello che illumina il cuore quando ti sento, e non ti vedo, ma ti sento, ovunque, nelle unghie che graffiano il ricordo di te. E volo, per raggiungerti prima che la mano ti tocchi, prima che quella bocca ti rubi ogni amore che c’è. Volo alto, sopra i ricordi e li vedo tutti, i nostri corpi che affondano dentro tutti i letti del mondo, le mani che deflagrano sessi convulsi, battono e pestano i semi dell’io, senza fine, cancellati da una lingua, che è mia e tua, uguale, la stessa, che esce dalla mia bocca e si fonde con la tua, che è mia, diventa mia, è tua diventa tua. Ma poi sono morto. Un colpo mi fa schizzare fuori il cuore, c’era la tua faccia, come sul tuo c’è il mio nome, indelebile, un tatuaggio inciso dal Dio degli ebrei e fuso da Allah, perché lui cosi ha deciso. Per sempre. Fino alla fine. E cado, a terra, il rumore di fondo che sento è silenzio. Nulla. Il cuore non cade, è fisso nel cielo, una pallottola, lo tiene, un memento, per quelli che s’innamorano, per quelli che lo faranno domani e per tutti quelli che non riusciranno più. Poi sono rinato, come acqua, un liquido caldo che bolle su pietre roventi, divento leggero, invisibile, vapore di me. Mi sollevo infinito, fino al temporale, mi mischio con lui, corrompo la tempesta, corrompo le nuvole dal loro candore. I tuoni che esplodono sono il tuo nome, la pioggia che cade sono parti di me, la senti, parla di te? Racconta una storia, una parola sola, ma è la storia, tutto quello che ho. Ma poi sono morto. Su di te.